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Carlo Noro, l’agricoltura biodinamica e il pragmatismo
Carlo Noro è un uomo gentile e pacato, sulla sessantina, che vive e lavora nella campagna romana a Labico. La biodinamica – secondo le definizioni più diffuse – è un metodo di coltivazione basato sulla visione spirituale e antroposofica del mondo elaborata da Rudolf Steiner.
Il pragmatismo è la connessione fra conoscenza e azione. Il nesso tra queste tre dimensioni è emerso da una lunga chiacchierata con Carlo, subito dopo Natale, nella sua campagna, nella grande sala costruita secondo i principi della bioedilizia. Una giornata fredda ma bella, un pezzo d’inverno pieno di colori in questi cinque ettari coltivati secondo i princìpi dell’agricoltura biodinamica.
Carlo Noro è il più grande produttore italiano di preparati biodinamici, probabilmente tra i più grandi d’Europa, con i suoi oltre 40mila corniletame prodotti.
Questo incontro è nato dal desiderio di voler capire meglio come il pragmatismo, che guida Carlo Noro nei suoi studi e nel suo lavoro, abbia aiutato la comprensione e la diffusione della pratica biodinamica e come questa possa liberarsi da interpretazioni esoteriche.
Come si diventa agricoltori biodinamici?
Nel mio caso per malessere e scontentezza. Prima della biodinamica e dell’agricoltura c’era un giovane uomo di neanche 30 anni che non era felice di quello che aveva e di quello che faceva. Eppure avevo iniziato presto a lavorare con buoni risultati, prima con una tipografia tutta mia e poi con un lavoro in banca sicuro e ben retribuito. Ma stavo male. Dopo diversi medici, ho incontrato un dottore esperto di antroposofia che mi ha semplicemente chiesto “Carlo, ma cosa vuoi fare nella vita?” La risposta è stata semplicemente: “Occuparmi della terra”.
Un desiderio nascosto o represso forse?
Affatto. I miei genitori si erano sempre occupati di agricoltura a Piglio nel Frusinate, ma io ero scappato da quelle terre. Dopo i primi anni in banca decisi di andare a vivere in campagna e cominciai a pensare che volevo fare qualcosa per me, ma anche per quelli che sarebbero venuti dopo, lasciare una traccia consapevole del mio vissuto. Perché il punto centrale è questo: lasciare al meglio ciò che non ci appartiene e che c’era prima di noi. È un dovere più che una scelta. L’ho capito cominciando a leggere i testi di antroposofia.
Quindi il suo è stato prima di tutto un approccio filosofico?
Ma non ho mai vissuto le cose disgiunte, esperienza da un lato, studio dall’altro, perché non lo sono. L’antroposofia crede nell’esistenza di un mondo spirituale che però è comprensibile alla ragione e che offre delle verifiche. A cominciare dal cambiamento interiore. Io sono cambiato e questo è qualcosa di verificabile. C’era un malessere che mi ingombrava e che ora non c’è più.
E se volessimo riportare questo pensiero all’agricoltura?
Pensi a un seme, in una cosa piccolissima c’è una conoscenza vecchia di milioni di anni, eppure ancora oggi non conosciamo la struttura del seme fino in fondo. Questo ci impedisce di usarlo e vederne i risultati o peggio ancora etichettarlo come qualcosa di mistico?
Come dire che conta più il percorso che il risultato?
Io credo che nulla sia casuale e che il mio malessere fosse necessario per mettermi su un percorso diverso, alla ricerca di un senso che c’era già. Il nostro impegno è nel cercarlo, quel senso.
Quindi lei doveva diventare agricoltore.
C’è un detto che amo molto: “Non c’è foglia che cada che Dio non voglia”. Sto parlando della predestinazione, non della fede in un qualche dio. Mi occupo di biodinamica da più di 30 anni e non faccio che apprendere cose nuove. So però che è la mia strada.
E quando ha messo le mani nella terra?
Ho capito che era inquinata, come me. In questi ultimi 50 anni abbiamo deturpato l’intero territorio agricolo applicando ad esso l’agronomia convenzionale. L’essere umano non ha capito che non bisogna occuparsi della natura con le leggi dettate dalla scienza meccanicistica connessa all’agroindustria. Nel 1924 Rudolf Steiner ci ha donato un nuovo impulso per sostituire il metodo agricolo chimico, che allora si stava affermando in tutta Europa. Ci ha dato gli strumenti per comprendere e intervenire, rispettando la sapienza e i meccanismi della natura che esistono, e si ripetono da milioni di anni. Non ho mai condiviso il detto “l’orto fa l’uomo morto”, secondo cui la coltivazione della terra arriva a prostrare l’uomo tanto essa è richiedente. Per me coltivare la terra è una passione che fa piacere al nostro animo.
E invece l’uso dei preparati cambia il rapporto con la terra?
La biodinamica è una scienza agronomica. Cosa c’è di a-scientifico nel mettere del letame in un corno? Il termine stesso “biodinamico” non è altro che la crasi tra agricoltura biologica e dinamica. Eppure nessuno sospetta di esoterismo l’agricoltura biologica.
Ma allora perché c’è ancora tanto scetticismo e finanche una certa ironia sull’argomento?
Qui c’è da fare un grosso mea culpa, mio e degli studiosi di biodinamica. Anche io all’inizio tenevo corsi in cui parlavo di filosofia e di dettami teorici. Invece bisogna portare i risultati di questa corrispondenza tra i fenomeni della natura e chi che ne fa esperienza. Agli agricoltori che mi seguono insegno le tecniche agronomiche e lo faccio insieme a Michele Lorenzetti, che è un enologo e un biologo. Tengo molto all’aspetto pragmatico di ciò che insegno. Le faccio un esempio, la dinamizzazione, che qualcuno ancora spiega tirando in ballo forze sovrannaturali, non è altro che un semplice processo di microbiologia: un vortice di acqua che, così girando, incamera ossigeno attivando la massa microbica.
Eppure lei crede profondamente in quella che Steiner chiama la “scienza spirituale”, come concilia questo con il pragmatismo?
La scienza è conoscenza e la conoscenza è crescita. E non c’è crescita senza un arricchimento dello spirito. Qui la spiritualità è intesa come percorso. La forza di Steiner sta in questo: di aver concepito i suoi metodi in maniera dinamica. C’è lungimiranza nella sua visione, perciò conta non solo ciò che facciamo per noi, ma anche quello che facciamo per gli altri, per quelli che verranno. La scienza senza conoscenza è chimica, è la dittatura della farmacopea che ha occluso la vitalità della terra, l’ha necrotizzata.
Lei è il primo ad aver sperimentato questo metodo sulla sua terra. Ce ne parla?
I miei figli stanno costruendo una piccola cantina per vinificare i due ettari di vigna che abbiamo in azienda. Osservando lo scavo abbiamo notato che c’è un metro e venti di terra scura, ovvero sostanza umica e colloidale, in una parola, vita. Biologicamente questo non sarebbe possibile perché l’agronomia spiega che la fertilità di un terreno difficilmente va oltre i cinquanta centimetri. Da cosa è dipeso? La mia risposta è dai preparati. Nel mio orto ho piantato un po’ di cavoli, che vengono attaccati dalla cavolaia. Da qualche anno, senza che io abbia fatto niente, è comparso il suo antagonista, l’apanteles, e così la perdita del prodotto si è enormemente ridotta. Si è parlato tanto di mosca olearia e dei danni causati agli uliveti, ma poco si è detto sul fatto che questa mosca avrebbe ben quattro antagonisti, quasi del tutto estinti ormai.
La sua azienda quindi si è arricchita di vita nel tempo?
Adesso sì, ma i primi anni sono stati tremendi. Il vecchio proprietario mi disse che questa era zona di impianti intensivi di meleti, pescheti e uva Italia. Immagini la quantità di diserbanti usata. Andavo avanti con il compost ma non veniva fuori nulla, tutto bruciato. A quel punto cominciai a usare le dosi di preparato consigliate, circa 200/300 grammi a ettaro. Mi ci volle poco per capire che non erano sufficienti e così iniziai ad aumentare il dosaggio, fino a un chilo/un chilo e mezzo per ettaro in diverse fasi dell’anno. In tre anni i miei cinque ettari di terra tornarono vivi. Questo della quantità è sempre stato un tema delicato perché, producendo preparati, mi si poteva accusare di spingere per motivi economici. Per questa ragione, a lungo, ho tenuto per me i risultati delle sperimentazioni, ma ho tantissimi clienti, in Italia e all’estero – quasi 500 – ed è normale che debba aiutarli a trovare soluzioni. Personalmente sono contro anche l’uso omeopatico della biodinamica, perché la depotenzia. L’omeopatia non è materia che immetti nel terreno, ma forza scissa in maniera infinitesimale di una molecola, la biodinamica invece è un’azione ponderale che immette sostanza nel campo.
Veniamo al vino e alla biodinamica in viticoltura: è un’attività che ha in sé dei limiti rispetto ad altre colture?
La viticultura molto spesso è una monocoltura, che è esattamente il contrario della biodiversità, concetto basilare della biodinamica. Inoltre la vite è una pianta che, dopo la diffusione del portainnesto americano (l’innesto di piante autoctone su radici di piante nordamericane che si erano dimostrate resistenti alla filossera ndr), ha subìto un forte trauma fisiologico. Ai viticoltori che mi chiedono consigli, dico innanzitutto di piantare alberi e piante nei vigneti, di creare un ambiente ricco di variegate forme di vita. Nel vigneto dei miei figli, due ettari sull’Appennino laziale, nonostante frequenti temporali pomeridiani fino a luglio, grazie alla biodinamica applicata in modo intensivo, siamo riusciti ad utilizzare un basso dosaggio di rame, al di sotto di quanto consentito dal disciplinare Demeter. So che suona come una frase fatta, ma con un’uva sana, il lavoro in cantina diventa secondario. Il processo di vinificazione è qualcosa di semplice, fatto di pochi passaggi se la materia di partenza è buona.
Chiediamoci piuttosto se non abbiamo estremizzato la viticoltura, con un’attenzione forse eccessiva da parte dell’imprenditore vitivinicolo. Abbiamo piazzato la viticultura su un piedistallo. Abbiamo detto che la viticoltura è più figa di altre colture. Forse, basterebbe ridimensionarla un po’ e tutto tornerebbe a essere più semplice, più secondo natura.
di Francesca Ciancio